Intervista di Clara Caverzasio a Francesca Francavilla, medico d’urgenza.
“Noi medici del pronto soccorso siamo sempre stati dei punching-ball. Una funzione importantissima, certo, perché la popolazione è abbandonata. I medici di famiglia non ci sono più, e ospedalieri e specialisti non accettano nuovi pazienti – perché costretti o per chissà quale altro motivo. Ma se il paziente diventa un nemico vuol dire che il sistema sanitario non funziona più”. Francesca Francavilla, medico di pronto soccorso in Umbria, “follemente innamorata della medicina d’urgenza”, per anni ha denunciato le criticità e le storture della sanità italiana. Invano. Due mesi fa ha deciso di non rinnovare il suo contratto con pronto soccorso e 118, per mettersi a disposizione delle USCA – le Unità Speciali di Continuità Assistenziale che visitano i COVID-positivi a domicilio. Un servizio attivo solo in alcune regioni italiane, nessuna delle quali è fra le più colpite dalla pandemia.
Secondo la sua esperienza personale (e non solo), le USCA sono state una scommessa vincente. Ad Harvard, spiega, hanno analizzato i modelli di reazione al virus delle tre regioni italiane più colpite. Risultato: l’ospedalizzazione è stata la scelta peggiore. “Abbiamo intasato i reparti come autostrade a ferragosto. E nessuno ha messo in conto la sepsi ospedaliera, che miete 49.000 morti l’anno. A tutti i familiari dico che i pazienti anziani sopravvivono all’infarto, all’ictus e a tante altre patologie, ma non alla sepsi. Perché la sepsi colpisce più organi insieme, e innesca sistemi immunomediati che sono più pericolosi del virus stesso”.
Laddove lo si è sperimentato, il trattamento a domicilio dei malati di Covid non gravi è stata la scelta migliore. “Il mio buon senso, ma anche l’esperienza fatta in Veneto e in Emilia-Romagna – ma anche in Umbria dove sono state attivate le USCA –, mi dice che lasciare a casa i pazienti positivi e sintomatici è stata la chiave di volta. Anche grazie alla idrossiclorochina, un antimalarico utilizzato contro l’artrite reumatoide e che si è dimostrato efficace già nell’epidemia di Sars nel 2003. La usiamo non perché abbia un’azione diretta antivirale, ma perché è in grado di ridurre il rischio di infiammazioni potenzialmente mortali a livello polmonare”.
In Umbria l‘USCA è stata attivata il 28 marzo. “Se alla vigilia di Pasqua avevamo 120 pazienti positivi e sintomatici con tosse, febbre e a volte dispnea, ora ne abbiamo solo 15. Gli altri stanno tutti bene. Sentiamo tutti i giorni persone che faticano a respirare: andiamo subito a visitarli, e li facciamo ricoverare solo se è necessario. Colleghi di Bergamo e di Milano mi dicono che lì questo servizio non è attivo. E allora c’è qualcosa che non mi spiego: se in Umbria e in Toscana non ci sono molti decessi, e a Milano hanno chiuso le rianimazioni, da dove vengono tutti i morti annunciati ancora in questi giorni? Forse si tratta di pazienti abbandonati a casa, che non sono andati in ospedale per la paura del contagio?”.
L’attivazione delle USCA su tutto il territorio, secondo Francavilla, permetterebbe di tornare più velocemente alla normalità. E non solo per motivi terapeutici. “Se permettessimo alle persone di respirare aria pulita, di prendere il sole e di essere rilassati e tranquilli, anche il sistema immunitario ne beneficerebbe: ingabbiare la gente non è meno grave che aprire i ristoranti”.
A questo proposito Francesca Francavilla aggiunge una riflessione interessante: “io sono anche agopuntrice, mi occupo di medicina tradizionale cinese. Secondo questa tradizione l’organo della tristezza, della frustrazione, della depressione, è il polmone. E il Covid, guarda caso, colpisce proprio il polmone. Quindi non dobbiamo dare l’occasione a questo virus di entrare, non dobbiamo aprirgli la porta per nessuna ragione al mondo. Niente panico, niente paura: questo è il momento del coraggio, della rinascita. In questo momento strano, “straordinario”, cioè fuori dell’ordinario, ci viene chiesto di essere stra-ordinari. Dobbiamo ripartire da noi”.
Una considerazione che può sembrare squisitamente filosofica, ma che ha un fondamento scientifico importante. L’eccessiva paura, l’ansia, attivano infatti il sistema simpatico, portandoci a scaricare continuamente ormoni come l’adrenalina e il cortisolo provocando “ansia da anticipazione’. Quell’ansia che ci permette di tenere tutti i motori al massimo in modo da essere in grado di reagire con la lotta o la fuga: fight or flight. Il problema è che se la paura perdura a lungo, l’energia degli organi interni si esaurisce, abbassando il livello di difesa. “E così si spalanca la porta alla malattia. È la paura, di fatto, a produrre il processo infiammatorio che porta ad ammalarsi”.
Francavilla non è certo l’unico medico a invocare una maggiore sensibilizzazione sull’importanza dell’aspetto psicologico. In Israele, per esempio, si sperimentano strumenti innovativi per non lasciare da soli i pazienti nelle case per anziani. All’Ichilov Hospital di Tel Aviv diretto dal dottor Ronni Gamzu, commissario governativo per le case anziani, sono state predisposte barriere e strumenti di protezione personale per consentire le visite dei famigliari agli anziani ricoverati, e anche la possibilità di accompagnarli nel momento del passaggio. Per altri istituti dove ciò non è possibile si sono ideate soluzioni quanto meno fantasiose: ad esempio, consentire ai familiari di salire su gru da edilizia appositamente attrezzate per vedere i malati nelle loro stanze. Gamzu lo ha toccato con mano: l’isolamento può portare i pazienti più anziani o debilitati ad abbandonare ogni resistenza alla malattia.
Francavilla ne è convinta: la lotta al coronavirus va bilanciata tenendo conto anche di questi altri aspetti. “Non possiamo vincere la battaglia al Covid e perdere la guerra. In questo senso, sono del parere che tutti noi dobbiamo rivedere le nostre priorità, perché la chiave di volta alla fine siamo sempre noi stessi, e la qualità del nostro sistema immunitario dipende da noi. Io faccio il medico, ma i medici non mi hanno convinto per niente. Solo quando c’è un dubbio, quando siamo disposti a metterci in discussione, può esserci cambiamento. Siamo noi che possiamo fare la differenza. Sempre”.
di Clara Caverzasio