Enzo Soresi, medico e Primario emerito di Pneumologia Ospedale Ca’Granda – Niguarda, ha fatto parte del consiglio direttivo di Braincircle Italia fin dalla fondazione, e continua a collaborare con noi, tanto che sul sito potete trovare un suo articolo proprio sul coronavirus. Qualche settimana fa è stato colpito dalla malattia in modo pesante, e ne è appena uscito. Questa è la sua testimonianza.
Stavo benissimo fino a martedì 24 marzo e il Coronavirus non mi faceva paura, anche perché avevo da poco pubblicato Come ringiovanire invecchiando, un libro in cui spiego che il segreto per una vecchiaia “sana” è quello di ridurre l’infiammazione attraverso percorsi alimentari adeguati e attività sportiva moderata. E mi attengo scrupolosamente alle mie indicazioni. Se il mio stile di vita non ha impedito al virus di attecchire dentro di me, il fatto di essere in condizioni psicofisiche ottimali mi ha certamente aiutato nell’affrontare la malattia e uscirne vincitore.
Dunque, torniamo al 24 marzo. Mi sveglio sentendomi in forma, ma a metà giornata comincio a rilevare delle contratture muscolari alla schiena, vengo assalito da brividi intensi con febbre intorno ai 38,5 gradi. Come uno tsunami imprevisto, Il tutto si consuma in pochi minuti. Sono un medico, e non mi faccio illusioni. “È arrivato” mi dico. E credo di sapere anche come: in seguito a un paziente che ho visitato, seppur con le dovute cautele, pochi giorni prima.
La mia autoterapia
Il 18 marzo avevo letto del protocollo del virologo francese Didier Raoult, che proponeva l’uso di un antimalarico in commercio, più eventualmente un antibiotico a base di azitromicina. Avevo già prescritto telefonicamente questa terapia a tre pazienti che mi avevano contattato telefonicamente e che effettivamente in pochi giorni si erano sfebbrati. Iniziai quindi con fiducia ad adottare tale protocollo terapeutico, ancora in fase di validazione in uno studio controllato che il prof Raoult sta conducendo su oltre 3.000 pazienti a Marsiglia, ma già comunque applicato in numerosi ospedali italiani.
Per sicurezza, associai calcieparina come prevenzione al rischio ormai noto di embolie polmonari che questo virus induce. Ricordavo inoltre studi di immunologia degli anni ’70 in cui si dimostrava che gli anticoagulanti rallentano la duplicazione dei virus per cui ero doppiamente convinto della opportunità di iniziare questa terapia. Sicuro di guarire, gestivo la febbre, molto aggressiva, con modeste dosi di paracetamolo e attendevo fiducioso senza mai sentirmi veramente preoccupato di non farcela “in fondo non è altro che un’influenza” pensavo.
Il ricovero ospedaliero
Giunto al settimo giorno, vedendo che la febbre era ancora molto elevata, su sollecitazione di un caro collega pneumologo, mi decido finalmente a richiedere il ricovero presso l’Ospedale San Gerardo di Monza nel sospetto di una infezione polmonare. La decisione di farmi ricoverare è stata sicuramente molto sofferta, in quanto di fronte a me c’era l’incognita di ciò che avrei dovuto affrontare: casco di ossigeno, intubazione, broncoscopia?
Entro nello spettrale Pronto Soccorso dell’Ospedale San Gerardo di Monza il 1 aprile alle quattro del pomeriggio, e in pochi minuti mi eseguono tampone faringeo, emogasanalisi arteriosa, esami ematologici e radiografia del torace. Efficientissimi, mi dico, ma poi rimango per otto ore in un’attesa assurda senza nessun segno da parte di medici o infermieri, e la mia baldanza comincia a venire meno. Mi vengono in mente i filmati che ho visto in televisione, la gente che muore nei corridoi degli ospedali attendendo di essere visitata, la mostruosa solitudine di essere lì solo, potenzialmente contagioso e dunque tenuto a distanza da chiunque. Sentendomi in buone condizioni cliniche non ho mai pensato di potere morire in quella circostanza ma l’angoscia maggiore era il nulla che stava avvenendo in quelle ore.
Finalmente a mezzanotte, quando ormai avevo perso ogni speranza, arriva un giovane medico del Pronto Soccorso che mi conferma l’opportunità del ricovero: sono Covid-19 positivo e ho una infezione polmonare per fortuna allo stadio iniziale. Mi trasferiscono in un reparto di geriatria e lì rimango in parcheggio 48 ore continuando ad assumere tachipirina e ossigeno somministrato con le cannette nasali. Una inerzia che mi preoccupa e che mi mette, io medico, dalla parte dei pazienti che si sentono impotenti in una struttura in cui sono solo dei numeri. Ma per mia fortuna non sono un paziente impotente, ho un santo in paradiso (e lo dico letteralmente): il collega pneumologo Sergio Harari con cui per parecchi anni ho collaborato presso la Divisione pneumologica Piazza di Niguarda si è attivato per chiedere un mio trasferimento in malattie infettive, dove finalmente approdo alle 11 di venerdì 3. Immediatamente cambia lo scenario, in poco tempo valutano la necessità di darmi ossigeno con ventimask Venturi a flussi di circa quattro litri al minuto e, poiché dagli esami ematologici risultavano segni di infezione polmonare in atto, viene iniziata la terapia antibiotica endovena. Sono fortunato, perché da pochi giorni proprio grazie ad Harari e altri colleghi pneumologi era stato inserito il cortisone nel trattamento del Covid-19, allo scopo di spegnere la cascata infiammatoria indotta dalle citochine flogogene (la più importante delle quali è l‘interleuchina 6). Già dopo la prima somministrazione di cortisone endovena il quadro clinico cambia in modo imprevedibile, la febbre scompare, in pochi giorni mi sento come guarito, tanto da chiedere le dimissioni domenica di Pasqua dopo 11 giorni di ricovero.
È importante mettere a fuoco la presa in carico nel reparto di malattie infettive. Già al mio ingresso nella stanza noto nell’altro letto la presenza di una paziente con casco dell’ossigeno e in condizioni respiratorie assai critiche e mi rimane impresso lo stretto monitoraggio clinico di questa donna, ricoverata 4 settimane prima in condizioni preterminali. Se hanno tirato fuori lei da una situazione così grave, penso, con me sarà un gioco da ragazzi. Pur mancando la presenza di un “primario” nelle successive visite, quello che mi ha dato grande tranquillità è stata la assunzione di responsabilità di ogni singolo componente del reparto nelle sue funzioni operative. Ricordo un particolare aneddoto riguardo all’esame di emogasanalisi arteriosa che gioca un ruolo fondamentale nei pazienti respiratori. Si tratta di valutare con un prelievo arterioso, assai doloroso e tecnicamente difficile, le percentuali di ossigeno e anidride carbonica su cui poi vengono impostati i flussi dell’ossigeno. Purtroppo, nei giorni precedenti non erano riusciti nel reparto geriatrico a inserirmi un adeguato catetere per cui vivevo con grande preoccupazione ogni annuncio di prelievo, in media due al giorno. Appena l’ago tocca l’arteria per penetrarvi, si sente come una frustata diffusa a tutto il braccio e si ha per un attimo la sensazione di perdita di coscienza. Alle 2 di notte, nel reparto di malattie infettive dove ero ricoverato da due giorni, compare un giovane infermiere, un adorabile puffo di nome Stefano, chiamato apposta dall’infermiera di turno perché il più esperto in questa tecnica di inserimento dei cateteri arteriosi. Sedutosi vicino al letto iniziò a inserirmi con estrema sicurezza il catetere arterioso ma purtroppo il vaso si piegò immediatamente e il tentativo fallì. Senza perdersi d’animo mi disse “dottore, mi faccia fare il secondo tentativo” in pochi secondi riuscì perfettamente a incannularmi l’arteria e da quella notte non ebbi più la preoccupazione dei prelievi arteriosi, in quanto il catetere è rimasto pervio e operativo fino alla mia dimissione.
Riflettendo sulla mia esperienza ritengo che una presa in carico del malato a 360 gradi, come è avvenuto nel mio caso, sia la vera chiave dal punto di vista psicologico che libera da molte preoccupazioni in quanto ci si sente inseriti in percorso bene disegnato il cui obiettivo è la guarigione del paziente e a cui tutto il personale sanitario partecipa con pari responsabilità oltre che sensibilità nel rapporto con il malato.
Una seconda considerazione, dal punto di vista emozionale, riguarda il rapporto con il mondo esterno. Moglie, figli, amici, colleghi e nel mio caso pazienti, formano come una rete di sostegno in cui si è sospesi ma che dà un grande conforto e in questo caso il cellulare con il suo caricatore diventa una protesi indissolubile.
Il rientro a casa
Pensavo che mi sarei ripreso rapidamente. Ma sono passati 10 giorni dalla dimissione, sono ancora in terapia con modeste dosi di cortisone e ogni giorno ritengo di fare piccoli passi in avanti, in realtà il quadro clinico, pur essendo tutti i parametri biologici normalizzati, è imprevedibile, ci si sente come passati attraverso uno tsunami. Sono debolissimo, con accessi di stanchezza inaspettati, tanto che passo molte ore del giorno a letto, senza forze. Talvolta alle 5 del pomeriggio vengo assalito come da uno stato di disperazione, ai limiti di una condizione psicotica non motivata da nulla, considerando che il peggio è passato e sono in compagnia di mia moglie in assoluta serenità…
Qui mi è venuto in aiuto Youtube. Ascoltando gli approfondimenti in rete di professionisti di varie specialità, vengo a conoscenza che questo virus ha una elettività per il sistema nervoso centrale e periferico con possibilità quindi di indurre varie condizioni patologiche, in alcuni casi addirittura crisi epilettiche. Ne è una prova la perdita di gusto e olfatto che viene segnalata da moltissimi pazienti, e talvolta può essere persino l‘unico sintomo. Che fare? La mia esperienza, quella che vorrei trasmettere a tutte le persone che sono state ammalate, o hanno un familiare o amico convalescente, è che bisogna aspettare con fiducia che la tempesta passi, senza avere fretta. E in questo periodo è fondamentale nutrirsi bene, con molte proteine animali e vegetali, idratarsi tanto, riposare sistematicamente, fare piccole passeggiate, magari con pochi gradini, più volte al giorno. In fondo si tratta solo di ridare vita ai nostri mitocondri stressati da questa tempesta biologica. Quando scrissi il libro Mitocondrio mon amour nel 2015 avevo ben capito la fondamentale importanza che questi batteri hanno per il nostro benessere, fornendoci ossigeno e nutrimento, ma solo dopo questa botta di Covid-19 ho toccato con mano la loro fondamentale importanza.
Alcune considerazioni finali
Dalla mia esperienza di medico e di paziente, la “ricetta” per uscire dalla crisi sarebbe di proteggere gli anziani (e anche i giovani) debilitati, cioè affetti da altre patologie, mentre il virus dovrebbe circolare liberamente nel resto della popolazione come in realtà sta avvenendo in gran parte del mondo, in modo da produrre l’immunità di gregge. E nel contempo, come già avviene in Germania, intervenire al domicilio dei malati con tempestività, prevedendo un ricovero in quarta giornata in caso di persistenza febbrile in modo da evitare i ricoveri tardivi con insufficienza respiratoria, candidati alle terapie intensive e all’elevato rischio di morte.
Insomma penso che nei prossimi mesi lo scenario cambierà e ci abitueremo a convivere con il Covid-19 forti di esperienze e programmazioni sanitarie più consapevoli oltre che di presidi terapeutici più efficaci.
Concluderei con una riflessione paradossale. Il 19 aprile ho compiuto 82 anni e 57 anni di professione medica, e ora che l’ho superata considero questa mia esperienza con il Covid un ulteriore arricchimento sia a livello professionale che di potenziale paziente, quale mi sono sempre considerato.
di Enzo Soresi