In tutta Europa si sta parlando di progressivo allentamento delle misure di isolamento, ma se da un lato tiriamo un sospiro di sollievo, dall’altro uscire dalla campana protettiva che ci separa dal resto del mondo può essere causa di ulteriore ansia. A quali pericoli andiamo incontro? Gli altri, sono “sicuri”?
Vorremmo tutti riprendere la vita di prima e dimenticare queste settimane, ma l’epidemia da coronavirus ci ha confrontati con l’angoscia della morte, una paura atavica dell’uomo, che il virus ha riportato alla luce, assieme a profonde insicurezze: non facile da debellare rapidamente. Un virus che non vediamo, non possiamo toccare, ma può infettarci attraverso qualsiasi persona. E noi possiamo infettare gli altri!
L’idea della morte è difficile da gestire in un mondo che tenta in tutti i modi di sopprimerla, di allontanarla (si muore sempre più fuori casa), mediatizzando all’infinito l’eterna giovinezza.
La psicanalisi e la psicologia insegnano che l’angoscia della morte, della fine della nostra vita, bisogna affrontarla e sconfiggerla.
Come possiamo fare, se possiamo farlo?
In primis, dobbiamo tornare ad integrare la morte come parte intrinseca della vita. Lo facevano i nostri avi, che, come mostra l’iconografia, spesso tenevano sulla scrivania un teschio, un memento mori, per ricordarci che siamo di passaggio.
E per renderci consapevoli che ogni giorno che viviamo è un giorno in più di vita e non un giorno in meno, come scrivevano i primi filosofi greci!
L’approccio al concetto della vita attiva fortemente le emozioni corrispondenti determinando la perdita della cognitività, ovvero della capacità di pensare, nutrendo fortemente l’angoscia di questi giorni.
Il coronavirus dovrebbe riportarci ad un concetto diverso della vita. La vita come profonda essenza del significato dell’esistenza umana.
Esistenza umana forte, stimolante, coraggiosa, ma fugace, fragile, debole, da proteggere e da accudire, in tutte le sue tappe.
In questa situazione fortemente esitante e che sta togliendo le sovrastrutture protettive che ci eravamo creati, le autorità sono obbligate ad intervenire, dando delle norme ma ogni misura di contenimento può avere l’effetto collaterale di aumentare il senso di insicurezza e l’ansia. Decisioni troppo restrittive amplificano l’angoscia e inducono la paura dell’altro, dell’untore.
Nel circuito dell’ansia il primo elemento è lo stato di allarme: questo l’abbiamo. Il secondo è la minaccia: noi tutti potremmo essere contagiati, anche in casa. Il terzo è il pensiero catastrofico del tipo ‘andrà sempre peggio’: fa scattare la paura di restare senza cibo, la diffidenza sociale verso l’altro.
L’epidemia non è la guerra, ma come la guerra è qualcosa che sfugge al nostro dominio e mette in crisi la società dell’ipercontrollo.
Siamo bombardati da continue misure anti-contagio, volute per tutelare la parte più debole, gli anziani, gli immunodepressi, i diabetici, le persone ipertese, i cardiopatici, gli obesi, ecc.
Misure che proseguiranno con la progressiva riapertura, rischiando di farci varcare quel sottile confine, da preoccupazione legittima ad ansia, quando la nostra mente continua ad essere parassitata dalla paura di essere infettati.
Per recuperare una vita piena e positiva, è fondamentale superare la dimensione dell’ansia patologica, quella che blocca il comportamento, l’azione, quando torneremo al lavoro e alla nostra vita “normale”.
Proteggiamoci, e proteggiamo gli altri, ma senza ossessività.
La pandemia è stata grave, e vivremo ancora le sue conseguenze, anche nella cosiddetta fase 2, perché ci ha colti impreparati, a livello medico-sanitario, organizzativo e individuale.
Tutto ciò che è improvviso, imprevisto e inaspettato, impatta fortemente sulla nostra razionalità togliendole i parametri ai quali affidarsi.
Dopo due mesi, possiamo affermare, però, di essere più preparati.
Conosciamo le misure protettive da seguire e i comportamenti da evitare.
Dobbiamo sempre di più pensare, in questi ultimi giorni di relativo isolamento, come pianificare il futuro, il recupero della nostra vita.
Bisognerà riflettere in modo evolutivo e attivo a cosa potremo e non potremo fare, a che cosa siamo pronti a rinunciare, a come tuteleremo i nostri figli e i nostri genitori.
A come tuteleremo Noi e gli Altri.
Ma anche a come riprendere la nuova normalità, forse più matura e meno arrogante di prima.
E approfittiamo anche per riflettere su questa esperienza, capire che cosa ci ha insegnato e sfruttare questo ultimo periodo di convivenza a tempo pieno per
recuperare un dialogo in famiglia, con i figli, con i partner, programmando insieme il futuro.
Cosa fare?
Come fare?
Innanzitutto, è importante uscire dall’individualismo che il senso di invincibilità della società opulenta e tecnologica ha veicolato, per passare al senso comunitario delle relazioni.
Recuperare la comunicazione familiare entrando in un ascolto più profondo dell’altro, domandosi dove ognuno di noi non presta sufficiente attenzione alle esigenze dei figli o del coniuge o del partner.
Freud nello scritto “Il disagio della civiltà” del 1929, affermava che l’uomo avrebbe dovuto rispettare e custodire tre elementi fondamentali.
Se lo avesse fatto avrebbe tratto protezione e forza.
Avrebbe rinforzato il proprio apparato psichico, le proprie emozioni, dando stimoli e sviluppo alla propria esistenza.
Attraverso questo il sistema dei neurotrasmettitori si sarebbe rinforzato.
Freud prima di diventare il padre della psicoanalisi aveva studiato la neurologia e nei suoi scritti si intravvedeva già la nascita delle neuroscienze, laddove preconizzava la plasticità neurale.
I tre elementi erano la Natura, il Corpo e le Relazioni.
L’uomo negli anni è diventato sempre più vorace, ancora più insaziabile di Cariddi, la Naiade fatta diventare mostro da Zeus.
L’ingordigia ha creato la società del consumismo sfrenato, del superfluo fatto diventare indispensabile, dello sfruttamento senza scrupoli delle risorse della Terra, dell’ambiente sempre più abusato e disgregato.
L’uomo è divenuto ancora più sfrenato di Erisittone, nominato anche da Dante nel Purgatorio, ed allora la Natura si è ribellata e si è ripresa il suo posto attaccando il corpo e inserendosi in una nuova epifania delle relazioni, del senso dell’umanità e dell’esistenza.
Recuperare, attraverso questa stravolgente e travolgente esperienza della fragilità dell’esistenza, dovrà e potrà agire sul ripensamento di ciò che veramente è indispensabile e di ciò che invece era, è e sarà sempre superfluo e, forse, inutile.
di Michele Mattia